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La chirurgia estetica, i figli illegittimi, le intercettazioni telefoniche, i rapporti extraconiugali, le scommesse più o meno lecite, le auto in corsa, i flash da bordocampo, i trofei assegnati, revocati, e riassegnati, il doping, la tessera del tifoso, le follie ultrà. Tutto nel calcio conta più della sostenibilità.
Gli aspetti relativi alle tematiche tipiche della sostenibilità nel settore calcio in Italia godono da sempre di attenzione solo marginale. Quando non del tutto disattesi, sono considerati subordinati al risultato sportivo o secondari rispetto ai benefici indiretti, prevalentemente economici, creati. In sostanza, la sostenibilità nel calcio nostrano, quando esiste, è un gadget per bambini. Eppure le domande cui la sostenibilità potrebbe dare risposta non mancano: razzismo e omofobia, gestione dei vivai e dei percorsi di fine carriera, mobbing, etica sportiva, fair play finanziario e soprattutto relazioni con i tifosi (più o meno organizzati).
Nelle squadre professionistiche il reddito d’esercizio (peraltro, spesso risicato) non è indicatore rappresentativo della reale situazione dell’azienda e la sua significatività può essere compresa del tutto solo considerando le implicazioni di carattere apparentemente extraeconomico, quali la reputazione, il rispetto per le esigenze dell’ambiente sociale, il grado di coinvolgimento di tifosi e simpatizzanti, il rischio di discredito e delle conseguenze di comportamenti non etici, il desiderio di allargare la propria sfera di notorietà e di azione. Nel calcio nostrano, più che in altri settori, gli intangibili valgono quasi quanto la moneta sonante. La sostenibilità potrebbe essere, per i club professionistici, una chiave di lettura utile a «creare» efficienza in modalità originali e innovative. Offre una duplice valenza: da un lato strategia d’impresa responsabile e di lungo periodo, volta alla valorizzazione del marchio, dall’altro innesco di un dirompente effetto domino. Il calcio è un megafono: di modi e di mode, di usi e costumi, di opinioni, di pensieri, e da ultimo, di politica. Diventerà mai megafono di etica?
Come spesso accade, il mondo si muove in direzione contraria rispetto ai trend tipici del nostro Paese. La FIFA ha avviato una strategia di CSR strutturata e organica secondo quattro pilastri: cooperazione internazionale (programma “Football for Hope”), gestione delle diversità, fair play sportivo e tutela dell’ambiente. Lo scorso giugno, a RIO + 20, il più alto organo del sistema calcistico ha presentato la “2014 FIFA World Cup Sustainability Strategy”, un processo basato sulla Linea Guida ISO 26000, le indicazioni del Global Reporting Initiative e di altri importanti framework riconosciuti a livello mondiale, volto a massimizzare gli impatti positivi e ridurre quelli negativi in merito all’organizzazione del prossimo Campionato del Mondo. Ironia della sorte, il CSR Manager di FIFA, è italiano. Anche la UEFA non è rimasta al palo e da qualche anno ha lanciato il Programma Respect (categorie Respect Diversity, Respect Fan Culture, Respect Inclusion and Respect your Health) e, come organismo di governance interna, la Commissione Fair Play e Responsabilità Sociale che identifica e propone politiche di CSR legate al calcio e si occupa di tutte le questioni di etica e fair play nel football europeo anche attraverso attività di knowledge sharing con i club.
In Italia, la FIGC ha mosso i primi timidi passi verso un percorso di sostenibilità, ma senza carattere di strategicità: periodicamente, la federazione propone attività filantropiche (prevalentemente di “giving”) in partnership con note ONP (come Save the Children, AIRC, AMREF) e campagne di sensibilizzazione rivolte al grande pubblico. Più forma che sostanza, valutando la posta in gioco. Focalizzata sulla serie cadetta, è stata lanciata “B Solidale”, una piattaforma di Responsabilità Sociale della Lega Nazionale Professionisti Serie B che vorrebbe rappresentare un ponte con il no profit e che ad oggi non va oltre attività benefiche, di sponsorizzazione o di co branding. Da segnalare, quale esempio virtuoso, l’ampio contenuto di sostenibilità introdotto nel dossier di candidatura del nostro Paese come organizzatore di EURO 2016. Europei poi assegnati alla Francia. Eppur si muove. Negli ultimi mesi del 2011 la Federazione ha presentato e lanciato il progetto di redazione del Bilancio Sociale. Il documento avrebbe dovuto essere presentato a giugno di quest’anno secondo i programmi, ma ad oggi nessuna traccia. In ogni caso, un’ipotesi di lavoro interessante, più strutturata rispetto alle singole azioni spot scardinate da un framework pianificato.
Pochi mesi fa Responsiball, una community internazionale nata per diffondere i principi di responsabilità sociale nel mondo del calcio, ha messo a punto un benchmarking con il quale ha indagato, attraverso l’analisi dei siti web e l’utilizzo di indicatori negli ambiti salute e sicurezza, gestione dei biglietti, iniziative per i fan, procurement e biodiversità, la sostenibilità dei principali tornei europei. L’Italia sta al 13esimo posto, alle spalle di prestigiosi campionati come quello svedese, polacco, greco, russo e ucraino, e appena prima di quello ceco. La classifica è guidata dalla Premier League, la massima serie del campionato inglese. Ed è proprio nella culla del football che si trovano le migliori pratiche di sostenibilità nei club professionistici.
Il Manchester United di Sir Alex Ferguson vanta una strategia di CSR strutturata e organica. Tipico di molti club britannici, la società ha promosso una Fondazione dedicata alle attività di charity (educazione, salute, inclusione sociale), avviando poi pratiche di engagement dei fornitori, ha redatto e promosso una politica ambientale e un sistema di gestione certificato ai sensi della norma ISO 14001, accompagnata da programmi specifici per la riduzione di energia e rifiuti, così come una politica sulla salute e sicurezza dei lavoratori con relativo sistema di gestione certificato ai sensi della norma BS 18001, abbraccia lo standard BS8901 per il “Sustainability Management System per gli eventi” e ha condiviso con i dipendenti una politica per la gestione dello staff (che include temi come remunerazioni e conciliazione vita lavoro) e per le pari opportunità del personale coinvolto nelle attività di supporto.
Mica male nemmeno l’impegno del Chelsea. I Campioni d’Europa in carica hanno affidato la gestione della propria CSR alla Fondazione controllata dalla società, redigono annualmente un Bilancio di Sostenibilità caratterizzato da un taglio qualitativo basato prevalentemente sui progetti di carattere ambientale, promuovono numerosi programmi di educazione, di non discriminazione e di inclusione sociale attraverso lo sport nonché di educazione alla salute e agli stili di vita corretti. Inoltre, la società propone ai propri tesserati attività di engagement interessanti a fini sociali, focalizzati sul tema dell’inclusione. Non è raro vedere John Terry assistere alle partite dei Blues davanti alla TV, ospite di qualche camera d’ospedale, insieme a giovani pazienti o ad anziani in case di cura.
L’impegno sul tema non è da meno neanche per squadre oggi meno blasonate come l’Aston Villa, anch’essa dotata di una strategia di CSR (“Villa in the Community”) basata su 4 pilastri (inclusione sociale, educazione, sviluppo delle comunità e “football development”). Il club di Birmingham redige un Bilancio di CSR e si impegna in numerose attività di supporto e finanziamento al territorio di riferimento: partnership con charities, politiche di approvvigionamento locali (catering), programmi di riduzione dei rifiuti e di utilizzo di materiali riciclati, piani di mobilità sostenibile per la riduzione dell’afflusso di auto private allo stadio, programmi di supporto ai disabili e di educazione alimentare. La società ha creato infine un gruppo di lavoro aziendale specifico sui temi della sostenibilità a garanzia di una governance solida del tema.
Nel Regno Unito dunque, sostenibilità e calcio non rappresentano una contraddizione. Molti altri club hanno implementato azioni in questa direzione: Manchester City, West Ham e Fulham solo per citare altre buone pratiche.
In ambito europeo c’è ancora un caso che merita di essere citato. Si tratta del FC St. Pauli, storico club di Amburgo, quartiere di soli 26 mila abitanti della città anseatica. Non una squadra di calcio, ma il simbolo di una cultura. La società vanta una politica di sostenibilità integrata nei valori della società: massimizzazione dei benefici positivi sul territorio, approccio olistico che non si riduca all’ambito sportivo, responsabilità politica e sociale nei confronti della città di riferimento, importanza del carattere esemplificativo del calcio verso le nuove generazioni, programmi di marketing responsabile. Insomma, una sorta di passaggio dal paradigma CSR al paradigma Shared Value, applicato al mondo del calcio.
In Italia, si diceva, siamo ancora in una fase prodromica. Qualche piccola iniziativa saltuaria (su tutte il Bilancio Sociale redatto dal Padova calcio nel 2006, prima e unica società nostrana), con un taglio molto più d’immagine che di contenuto, come la recente scelta dell’Inter di organizzare un ritiro pre-stagionale a basso impatto ambientale con utilizzo di prodotti di consumo in mater-b, connessi a programmi di sensibilizzazione dei tifosi alla riduzione dei rifiuti, nonché di acquisto di energia green.
Da segnalare l’esistenza di alcune (poche a dire il vero) fondazioni d’impresa (Milan e Novara, ad esempio), e la best practice del Varese Calcio, che non solo ha ottenuto una certificazione SA8000 ma ha predisposto un Codice Etico parte integrante del contratto con i calciatori e di tutte le maestranze che a vario titolo lavorano con il club. Infine, merita di essere menzionato Inter Campus, che dal 1997 realizza interventi sociali e di cooperazione flessibili e a lungo termine, attraverso 24 programmi nel mondo con il supporto di 200 operatori locali, utilizzando l’attività di calcio come strumento educativo per restituire a 10.000 bambini bisognosi tra i 6 e i 13 anni il diritto al gioco. Infine, da segnalare un fenomeno di sicuro interesse e prospettiva potenzialmente dirompente: in contesti provinciali e semi-professionistici sta prendendo piede con vigore il tema dell’azionariato popolare, soprattutto in quei club passati da crisi finanziarie e fallimenti, che dice di un nuovo metodo di gestione societaria, lontano dall’approccio moderno al business sportivo e legato a doppio filo al territorio di riferimento.
Lo scenario italiano parla dunque di molte attività encomiabili, seppur non sufficienti per poter essere annoverate in uno stile di management votato a una nuova cultura sostenibile. In sintesi, quali sarebbero i benefici ottenibili da un approccio strutturato di CSR? Un sicuro incremento della capacità di attrarre sponsor e investitori e di realizzare operazioni societarie, la generazione automatica di efficienze gestionali con conseguente riduzione dei costi operativi (costi energetici, per la gestione dei rifiuti, etc.), la ridotta volatilità dei valori azionari (per le quotate), la riduzione del rischio di non compliance agli adempimenti normativi (con ulteriore riduzione dei costi conseguenti), condizioni favorevoli dal sistema bancario e assicurativo e soprattutto una migliore reputazione e maggiore visibilità mediatica e presso l’opinione pubblica. Stiamo parlando di un settore “green field”, in cui basterebbe poco per ottenere un forte vantaggio competitivo con un conseguente incremento dei sostenitori in ambito internazionale e, più in generale, una valutazione più corretta del valore dell’organizzazione da parte degli stessi.
Sviluppare un approccio di sostenibilità nelle società professionistiche di calcio permette dunque di superare e risolvere un nodo tipico: processi gestionali e cultura di management soggetta a dicotomia tra obiettivi sportivi di breve e obiettivi aziendali di lungo termine. La sostenibilità è un’opportunità anche nel mondo del calcio. E’ ora che i club avviino una riflessione seria, perché ad oggi, in fatto di etica, il rigore è dubbio.
Nella foto: I Prodigy, gruppo musicale britannico, sponsorizzano la squadra Under 13 degli Eastleigh Reds.
Le maglie dei giovani calciatori portano sul petto il logo della formica e il nome del gruppo: The Prodigy.